Franco Basaglia: il pensiero dietro la legge 180 (2)

In questa seconda parte vediamo altri punti fondamentali che definiscono il pensiero e i valori di Basaglia. Partiamo dal fatto che il suo punto di partenza era sempre la realtà concreta, una realtà che è sempre in ogni contesto ambigua, contraddittoria, mutevole, incerta, e che (proprio per queste sue caratteristiche) è anche continua fonte di vitalità e di umanità. Sempre nella e dalla realtà nascono i bisogni umani, e sempre in un certo istante, a seconda delle condizioni non solo relazionali, emotive e psicologiche, ma anche di quelle storiche, economiche, politiche del momento. E allora anche la sofferenza di un individuo o di un gruppo sociale si inscrive sempre in questo pluri-contesto.

Abbiamo già detto come la Comunità Terapeutica, intesa come “istituzione della tolleranza”, corra il rischio, diventando un punto di arrivo e quindi un’ideologia, di arrivare ad essere un velo che viene posto sui continui mutamenti della realtà, e quindi di “depistare” il tecnico (lo psichiatra nel suo caso) dai bisogni umani esattamente come facevano gli “istituti della violenza”, quasi come se i due tipi di istituzione, pur nelle loro differenze superficiali, fossero due facce di una stessa medaglia che è la società capitalistica più ampia, che si serve ora dell’una ora dell’altra per mantenere lo status quo e non porsi radicalmente in discussione partendo, com’è necessario per una comunità che ha veramente come scopo il benessere dei propri cittadini, dal confronto dei propri valori con i bisogni emergenti dalle realtà concrete.

Porsi in discussione per una società significa appunto prendersi la responsabilità delle proprie contraddizioni, afferma Basaglia, partire dalla pratica, dalla realtà stessa dei bisogni dei propri cittadini, per riadattarsi continuamente ad essi non solo a livello istituzionale e tecnico (quindi “superficiale”), ma anche e soprattutto a livello valoriale, radicale: laddove nascono così tanti sintomi su un piano “funzionale”, per riequilibrare il sistema è necessario un cambiamento di visione del mondo, un cambiamento “strutturale”. Ammettere le proprie contraddizioni interne, quindi partire dalla realtà, permette di puntare una nuova luce sulla sofferenza umana rispetto alla psichiatria classica che Basaglia denuncia, portando in primo piano l’esperienza e non il pensiero, la vita e non le false sicurezze, la pratica e non la teoria, l’uomo e non l’arricchimento economico. E lo psichiatra (ma l’attualità di questa riflessione per tutti gli studiosi delle scienze umane, come psicologi, psicoterapeuti, antropologi, è evidente) dovrà rendersi consapevole e prendersi la responsabilità del suo vero ruolo di cura, che finora è stato sempre in contrasto con l’impossibilità sociale a promuoverlo, data la maschera o etichetta che la nostra società stessa gli richiedeva di imporre sull’uomo sofferente, e che lo psichiatra assecondava perché gli dava una certezza, una “base solida” da cui partire, ma che allo stesso tempo non faceva che innalzare un muro comunicativo tra sé e quella stessa realtà a cui, nel suo atto patologizzante, voleva provare timidamente ad avvicinarsi.

E allora partire dalla realtà significa anche recuperare l’ansia del professionista, la sua umanità di fronte al paziente, nella consapevolezza che quella che gli si presenta davanti può essere definita “realtà” solo se considerata come una situazione sempre nuova, in continua evoluzione, dove paziente e terapeuta cercano di costruire insieme la storia del primo, di riconoscere gli elementi di oppressione, e di dirigersi insieme verso l’attribuzione di un senso alla propria condizione, sviluppando una capacità d’azione e di opposizione ai valori dominanti.

Basaglia in diversi scritti sostiene infatti l’importanza dell’aggressività e dell’opposizione, gli unici modi veri, autentici, di manifestare la propria assertività e agentività nei confronti di una definizione che non ci calza bene addosso, e che siamo ideologicamente costretti ad indossare. Il conflitto infatti era uno degli elementi da dover necessariamente sviluppare anche all’interno delle sue Comunità Terapeutiche: conflitto tra medico e infermiere, tra psichiatra e paziente tra paziente e infermiere, tra paziente e paziente, tra tutta l’organizzazione interna e il contesto locale, e tra il contesto locale e le direttive sociali più ampie, così da non misconoscere mai l’aderenza alla realtà dei bisogni umani e sociali, nella consapevolezza di non poter mai afferrare la realtà sotto la forma di uno stato permanente di quiete, ma anzi in una continua negoziazione di concessione, ascolto, assertività, soluzione, crisi, legami comunitari, sofferenza, soddisfazioni, scelte tecniche ecc., che è poi la relazione tra professionista della cura e paziente, e che diventa il rifluire della vita nel paziente.

Realtà e utopia

Basaglia adotta anche un altro linguaggio per mettere in evidenza le fondamentali contraddittorietà della realtà e la giusta via per procedere senza rinunciare mai a questa aderenza, ed è il linguaggio dell’utopia. I cambiamenti storici verso una direzione positiva per l’uomo e la società, quindi le “programmazioni”, non possono che svolgersi partendo da ciò che vediamo esserci, cioè dalla pratica. Solo così si può parlare di una vera utopia, di un’utopia funzionale, una guida, l’orientamento verso un non-ancora, che però ha il ruolo positivo di mantenere il sistema aperto ad un cambiamento consapevole e non illusorio.

L’utopia vista in questo modo (e non come obiettivi a lungo termine da porsi sulla base di un ideale a cui voler arrivare a priori, solo per “quel che sarebbe giusto”, senza l’aderenza alle realtà locali e alle pratiche culturali), è quel valore che dal praticamente vero permette di tendere alla sua continua trasformazione nella pratica, di non considerare né le Comunità Terapeutiche, né la legge 180, come dei punti di arrivo, ma come degli ulteriori punti partenza da mettere in crisi partendo dalle realtà locali, per evidenziare le contraddizioni sociali e non continuare a celarle dietro semplici riforme, mai radicali, che semplicemente ripresentano gli stessi valori ideologici sotto forme istituzionali e tecniche diverse.

Ragione, Follia, Malattia

Infine, una riflessione importante di Basaglia è sul rapporto tra follia, malattia e ragione nella società moderna. La trasformazione della follia in “malattia” è uno dei sintomi che la nostra cultura ha assunto una considerazione ideologica della scienza. La follia viene trasformata in malattia perché attraverso il linguaggio della Ragione (divenuto metro di giudizio del giusto-ingiusto, normale-anormale, sano-malato) la follia non ha significato, e pertanto questa sua “incomprensibilità sostanziale” (Jaspers) deve trovare una collocazione sociale per non mettere in discussione il concetto di “uomo” scientificamente inteso, collocazione che viene trovata nella malattia, con l’aiuto dell’identificazione delle categorie diagnostiche, per il cui controllo venivano usati gli ospedali psichiatrici, istituzioni che sotto il promosso fine esplicito di favorire la cura, nascondono un “crimine di pace”, l’esclusione sociale dei malati. Ma Basaglia è molto fine e sottile nel disvelare queste oppressioni, e nel mettere in luce la naturalizzazione del rapporto follia-malattia, l’identità di significato tra questi due termini che ha creato la cultura positivistica per mantenere una propria stabilità interna. In questa identità viene nascosto il fatto che la follia ha un suo senso intrinseco, che proprio in virtù del fatto che sta fuori dal linguaggio della Ragione, da questa non può essere compreso, e quindi viene valutato come “malattia”. La Ragione in questo modo toglie voce alla follia, le impedisce di esprimersi, perché vorrebbe che si esprimesse con il linguaggio logico e razionale, l’unico giusto, normale, sensato, sano. Ma essendo la follia un altro aspetto dell’umano ha una voce diversa, parla un’altra lingua, e solo se l’uomo nella sua totalità (e non solo con le sue teorie, ideologie, etichette) è disposto a sentirsi ed ascoltarsi, quindi a sentire e ascoltare l’Altro (interno ed esterno), può avvicinarsi a cogliere il senso della follia, i bisogni non espressi dei cosiddetti “malati”, arrivando magari a capire qualcosa in più di sé e della brutalità delle sue istituzioni sociali, ed evitando al contempo di relegare quella stessa follia presso musei, geni, poeti, artisti (altro modo per non vedere dentro di sé le stesse tensioni irrazionali, demandandole ad aspetti “non comuni” dell’umana natura).

Basaglia ammette che Freud ci aveva provato a dare una propria voce all’irrazionale, a riconoscerlo dentro di sé (l’inconscio), ma poi aveva improntato il suo sistema terapeutico verso un graduale riassorbimento di questa parte nella stessa Ragione, che doveva tradurre la follia nel suo linguaggio, continuando a poter tenere a bada bisogni che la società non poteva soddisfare (“laddove vi era l’Es, deve subentrare l’Io”). Basaglia invece assume un punto di vista ben più ampio, che sta tra psicologia, antropologia, sociologia e politica, riconoscendo come partendo dai bisogni umani che pian piano emergono dall’interazione terapeutica e da altre situazioni pratiche, mantenendosi aderenti ad una realtà sempre in continuo divenire, si debba puntare a un adeguamento teorico e sociale tale che venga sempre mantenuta la sostanziale continuità tra struttura sociale, istituzioni e vite degli individui, non modificando queste ultime sulla base di valori sociali ideologici e dati a priori, ma partendo dalla vita e dalla sofferenza dei singoli nei vari contesti locali, per attuare anche cambiamenti socio-politici radicali, che rimettendo sempre in discussione i propri assunti, consentono di mantenersi sempre aderenti alla realtà, rendendo giustizia e dignità alla vita.

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